“Se hai qualche problema con me, be’, puoi fotterti. Io sono il cuore e l’anima di questa organizzazione, il fondatore, il filosofo, il portavoce, il primo programmatore, organizzatore, finanziatore e tutto il resto”. Forse meglio di molte analisi, è il contenuto di questo sms – e delle numerose altre fiammate rivolte da Julian Assange a giornalisti, ex collaboratori, avversari – a fornire il ritratto più autentico dell’australiano dai capelli di platino e della sua creatura, WikiLeaks, il sito che ha messo in ginocchio le diplomazie internazionali diffondendo video scottanti, informazioni top secret e migliaia di dispacci di corrispondenza politica riservata.
Audacia, insolenza, culto della personalità. Armi al servizio di un obiettivo perseguito per anni con determinazione: liberare l’informazione, rendere pubbliche le notizie che i governi vogliono tacere.
Tutta la storia è ripercorsa dall’interno del Guardian, il giornale che nell’estate 2010 ha stretto un patto senza precedenti tra la stampa ufficiale e questo rivoluzionario pirata informatico. Il risultato è – come scrive il direttore del quotidiano, Alan Rusbridger – “la trasformazione di un individuo da anonimo hacker in uno dei personaggi più controversi del mondo, insultato e vituperato ma allo stesso tempo celebrato e adorato come un idolo, poi ricercato, imprigionato e scansato come la peste”.